Cassazione Penale Sez V sentenza n. 14342/23
che si assume lesiva della altrui reputazione perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e quindi della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso diesclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell’imputato(Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019, dep. 2020, Fabi, Rv. 278145; Sez. 5, n. 48698 del 1 9/09/2014, Demofonti, Rv. 261284; Sez. 5, n. 41869 del 14/02/2013, Fabrizio, Rv. 256706).
Ciò detto, è fondato ed ha carattere assorbente il motivo che denuncia violazione di legge con riferimento al mancato riconoscimento, nel fatto così come riscostruito dai giudici di merito, della scriminante del diritto di critica.
Il motivo è stato formulato nell’interesse dei quattro imputati sindacalisti, cui è ascritta la redazione del volantino asseritamente diffamatorio, mentre il ricorrente D’Angelo, direttore del giornale che ha rilanciato il testo del volantino, ha spostato l’attenzione sull’omessa motivazione in ordine al diritto di satira, cioè su un aspetto sul quale l’atto di appello non aveva mosso alcuna doglianza alla sentenza di primo grado.
L’atto di appello, infatti, aveva sollecitato il giudice di secondo grado ad esprimersi sul diritto di cronaca e sul diritto di critica, e non già sul diritto di satira.
Del resto, il testo in questione (l’osservazione vale sia per il volantino sindacale che per l’articolo di stampa) non rientra in quel genere letterario o artistico che si propone di mettere in ridicolo personaggi, ambientio costumi con toni comici o sarcastici e intenti moralistici, e che è definito satira.
Certamente l’incriminazione della diffamazione costituisce una interferenza con la libertà di espressione e quindi contrasta, in principio, con l’art. 10 CEDU, a meno che non sia «prescritta dalla legge», non persegua uno o più degli obiettivi legittimi ex art. 10 par. 2 e non sia «necessaria in una società democratica». In riferimento agli enunciati limiti,la Corte EDU ha, in varie pronunce, sviluppato il principio inerente la “verità del fatto narrato” per ritenere “giustificabile” la divulgazione lesiva dell’onore e della reputazione: ed ha declinato l’argomentoin una duplice prospettiva, distinguendo tra dichiarazioni relative a fatti e dichiarazioni che contengano un giudizio di valore, sottolineando come anchein quest’ultimo sia comunque sempre contenuto un nucleo fattuale che deveessere sia veritiero che oggettivamente sufficiente per permettere di trarvi ilgiudizio, versandosi, altrimenti, in affermazione offensiva “eccessiva”, nonscriminabile perché assolutamente priva di fondamento o di concretiriferimenti fattuali.
In tal senso, la Corte Europea si riferisce principalmente al diritto di critica,politica, etica o di costume e, in generale, a quel diritto strettamente contiguo,sempre correlato con il diritto alla libera espressione del pensiero, che è ildiritto di opinione, indicando poi quali siano i limiti da non travalicare nel casodi critica politica.
Nella delineata prospettiva si pone, tra le altre, la sentenza CEDU
Mengvs.Turkey, del 27.2.2013, distinguendo tra statement of facts (oggetto diprova) e value judgements (non suscettibili di dimostrazione), rilevando comenel secondo caso il potenziale offensivo dell’articolo o dello scritto, nel quale ètollerabile – data la sua natura – “exaggeration or even provocation”, sianeutralizzato dal fatto che lo scritto si basi su di un nucleo fattuale (veritiero erigorosamente controllabile) sufficiente per poter trarre il giudizio di valorenegativo; se il nucleo fattuale è insufficiente, il giudizio è “gratuito” e pertantoingiustificato e diffamatorio (si vedano in particolare, su questi concetti: Sez.5, n. 11669 del 05/12/2022, dep.5 2023, Abbate, non massimata e Sez. 5, n. 32027 del 23/03/2018, Maffioletti, Rv.273573).
Ciò premesso, non si discute in questa sede della verità o veridicità dei fatti esposti nel volantino sindacale, il cui contenuto è stato ripreso dall’articolo redazionale del quotidiano diretto dal ricorrente D’Angelo.
Si trattava, come è stato riconosciuto dai giudici di merito, di affermazioni con le quali i rappresentanti dei lavoratori dello stabilimento Fincantieri di Castellammare di Stabia esprimevano forti riserve sull’operato del capo della vigilanza, contestando le modalità con le quali svolgeva la sua attività di monitoraggio e controllo. Inoltre, gli scriventi muovevano generiche critiche nei confronti della strategia aziendale della società Fincantieri.
La valenza offensiva di una determinata espressione, naturalmente, deve essere riferita al contesto nel quale è stata pronunciata. Occorre calibrare la portata di una espressione in relazione al momento e al contesto siaambientale che relazionale in cui la stessa viene proferita, e non è ammessauna risposta giudiziaria repressiva che estenda la tutela prevista contro lalesione dell’onore o del decoro anche a casi di contestazione dell’operato altrui(così Sez. 5, n. 32907del 30/06/2011, Di Coste, Rv. 250941, in motivazione).
La causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen., sub specie dell’esercizio del diritto di critica, ricorre appunto quando i fatti esposti siano veri o quantomeno l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente convinto, ancorchéerrando, della loro veridicità. Il diritto di critica si concretizza in un giudiziovalutativo che, postulando l’esistenza del fatto elevato a oggetto o spunto deldiscorso critico, trova una forma espositiva non ingiustificatamentesovrabbondante rispetto al concetto da esprimere; di conseguenza va esclusala punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato ogergale, purché tali modalità espressive siano adeguate e funzionaliall’opinione o alla protesta, in correlazione con gli interessi e i valori che siritengono compromessi (Sez. 1, n. 36045 del 13/06/2014, Surano, Rv. 261122).
In ogni caso la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica (Sez. 5, n. 25518 del 26/09/2016, dep. 2017, Volpe, Rv. 270284).
L’attenzione si sposta allora sul requisito della “continenza” delle espressioni utilizzate per esprimere la propria opinione.
Ha precisato la Corte di cassazione (Sez. 5, n. 36602 del 15/07/2010, Selmi, Rv. 248432) che «per dirimere le divergenze sulla nozione di “continenza”occorre ricordare che di essa non si può invocare la esclusione solperché le frasi pronunciate abbiano contenuto lesivo della altrui reputazione».
Occorre valutare “i termini” con i quali ci si è espressi, ossia le “espressioni utilizzate” (Sez. U, n. 37140 del 30/05/2001, Galiero, Rv. 219651), il lessico (Sez. 5, n. 6925 del 21/12/2000, dep. 2001, Arcomanno, Rv. 218282), la modalità espositiva(Sez. 5, n. 8824 del 01/12/2010, dep. 2011, Morelli, Rv. 250218; Sez. 5, n. 31096 del 04/03/2009, Spartà, Rv. 244811; Sez. 5, n. 25138 del 21/02/2007, Feltri, Rv. 237248)
Il requisito della continenza non è di per sé superato per il solo fatto dell’utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio critico negativo di cui deve tenersi conto anche alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato (Sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016, C., Rv. 276866).
La vicenda in esame si caratterizza per l’espressione, da parte di soggetti titolati a farlo (in quanto rappresentanti sindacali), di espressioni di dissenso nei confronti di un dirigente aziendale giudicato, per così dire, inutilmente zelante rispetto a determinate sue mansioni.
Nell’espressione di tale dissenso sono state usate espressioni critiche dal tono non “indubitabilmente” offensivo, quali le parole “sceriffo” o “caporale”, allusivo alle funzioni svolte ed alle loro modalità di esecuzione; come pure l’espressione, fortemente critica ma non certo indubitabilmente” offensiva, «più si muove più fa danni».
Situazione ben distante da quella, pure pertinente al settore della critica sindacale, giudicata da questa Corte nella sentenza n. 15060 del 23/02/2011, Dessi, Rv. 250174, laddove il soggetto preso di mira era stato definito, in un volantino, come «notoriamente imbecille».
Rimane da valutare, quale dato caratteristico della fattispecie concreta qui in esame, il ripetuto uso, in funzione chiaramente critica, di una storpiatura vernacolare del cognome della persona offesa (il cognome della parte civile è “Arancio”; la persona criticata è stata definita con un termine dialettale che, in lingua italiana, potrebbe essere tradotto “arancino”).
Ancora una volta, occorre distinguere tale situazione da quella nella quale il cognome, venendo storpiato, assuma un significato obiettivamente di offesagrave o turpiloquio (come nel caso scrutinato da Sez. 5, n. 320 del 14/10/2021, dep.2022, Mihai, Rv. 282871).
Nel caso di specie, il “diminutivo” usato, dal contenuto di per sé non indubitabilmente offensivo, è strettamente funzionale ad esprimere l’opinione di una direzione aziendale e di un capo della vigilanza attenti a far rispettare determinate disposizioni e non altrettanto pronti a rispettare i pretesi diritti dei lavoratori; opinione chiaramente evidenziabile in tutto il testo, ed in particolare nelle ultime righe, dove si invita ad abbandonare l’atteggiamento di «notare la pagliuzza negli occhi dei lavoratori e non le travi negli “occhi Fincantieri”».
Per questi motivi la Suprema Corte Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla diffamazione perché il fatto non sussiste e perché il fatto non costituisce reato.