Negli ultimi mesi del 2025, l’Italia ha compiuto un passo significativo verso una ridefinizione della cultura della sicurezza sul lavoro. Il Decreto Sicurezza 2025 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 31 ottobre con il numero 25G00172 e già oggetto di ampio dibattito dottrinale) non si limita a introdurre nuovi obblighi burocratici o a irrigidire sanzioni: tenta, piuttosto, di rimettere al centro una verità troppo spesso dimenticata — che la salute dei lavoratori non è una variabile di costo, ma il cuore pulsante di ogni sistema produttivo sostenibile.
Chi lavora non è un rischio da gestire, è una persona da proteggere. Eppure, ogni anno, migliaia di infortuni — molti dei quali gravi o mortali — raccontano una storia diversa: quella di ambienti in cui la fretta ha la meglio sulla prevenzione, dove la formazione è un adempimento formale, non una pratica viva. Il nuovo decreto sembra voler spezzare questa logica, introducendo un approccio più articolato, più responsabile e, soprattutto, più umano.
Tra le novità più rilevanti, emerge con forza il rafforzamento delle responsabilità del datore di lavoro, ora chiamato non solo a dotarsi di idonei dispositivi di protezione, ma a costruire un vero e proprio “sistema di prevenzione partecipato”. Non basta più nominare un Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) e archiviare la questione: il decreto richiede coinvolgimento, ascolto continuo, valutazione dinamica dei rischi — compresi quelli psicosociali, finalmente riconosciuti con maggiore chiarezza. Lo stress da lavoro correlato, il mobbing organizzativo, la gestione del carico mentale: non sono più “problemi personali”, ma fattori di rischio da prevenire con la stessa serietà con cui si valuta un macchinario difettoso.
Inoltre, il decreto introduce una novità di impatto: la responsabilità condivisa lungo la filiera. Appalti, subappalti, reti di imprese — nessuno può più nascondersi dietro la complessità del rapporto contrattuale per sottrarsi agli obblighi di sicurezza. Ogni soggetto che partecipa alla catena produttiva deve garantire condizioni di lavoro dignitose e sicure. È un cambio di paradigma che colpisce al cuore quelle logiche di dumping sociale troppo spesso utilizzate per tagliare costi a discapito delle persone.
Ma non tutto è roseo. Il decreto rischia di rimanere una buona intenzione se non accompagnato da un rafforzamento reale dei controlli ispettivi e da una formazione di qualità per i lavoratori e i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS). La legge, per funzionare, ha bisogno di gambe: servono ispettori del lavoro formati, risorse adeguate, e una cultura d’impresa che veda la sicurezza non come un vincolo, ma come un valore competitivo.
Chi scrive — operando quotidianamente a contatto con aziende, consulenti legali e medici legali — sa quanto sia difficile cambiare abitudini radicate. Eppure, ogni volta che un imprenditore sceglie di investire in formazione anziché in multe evitate per un soffio, ogni volta che un RLS viene ascoltato e non emarginato, ogni volta che un lavoratore si sente sicuro non solo fisicamente ma anche psicologicamente, si costruisce un pezzo di futuro migliore.
Il Decreto Sicurezza 2025 è un’opportunità. Non la soluzione definitiva, ma un invito a ripensare il lavoro come spazio di dignità, non di sfruttamento. La vera sicurezza non si misura solo in assenza di infortuni, ma in presenza di rispetto. E in questo senso, il cammino è appena iniziato.

