La Corte di Cassazione, con un’ordinanza depositata il 18 novembre 2025 (n. 30457), ha ribadito con forza un principio cardine del sistema previdenziale italiano: i contributi previdenziali devono essere calcolati su una base retributiva minima, definita dalla legge, indipendentemente dallo stipendio effettivamente corrisposto al lavoratore. La vicenda riguardava un ente del terzo settore che aveva impugnato l’avviso di accertamento dell’INPS relativo a presunti omessi versamenti contributivi. Il Tribunale e, successivamente, la Corte d’Appello avevano parzialmente dato ragione al datore di lavoro, escludendo dalla base imponibile alcune indennità – tra cui l’indennità mensile e quella di turno oraria – sostenendo che queste non fossero più dovute in quanto previste da un accordo integrativo aziendale ormai caducato. La Cassazione, tuttavia, ha cassato questa impostazione, rilevando un errore di diritto fondamentale.
Il principio del “minimale contributivo”
Al cuore della decisione c’è l’art. 1 del decreto legge n. 338 del 1989, convertito nella legge n. 389 del 1989, che stabilisce:
«La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo».
In sostanza, la base contributiva non può essere inferiore a quella prevista dal contratto collettivo nazionale di riferimento (cosiddetto “contratto leader”), né a quella eventualmente pattuita in sede individuale se più favorevole. Questo anche nel caso in cui il datore di lavoro, per ragioni economiche o organizzative, applichi di fatto una retribuzione inferiore.
Autonomia del rapporto contributivo
La Cassazione ricorda che il rapporto contributivo è autonomo rispetto all’obbligazione retributiva. Ciò significa che, ai fini del calcolo dei contributi, non conta quanto il lavoratore percepisce effettivamente, ma quanto gli spetterebbe in base al contratto collettivo o individuale. Questo approccio assicura la coesione del sistema previdenziale, garantisce l’equità di trattamento tra i datori di lavoro e tutela il diritto costituzionale a una pensione adeguata, come sancito dall’art. 38 della Costituzione. La Corte ha ribadito che la contrattazione aziendale o territoriale può prevedere trattamenti più favorevoli (“in melius”), ma non può ledere il livello minimo stabilito dalla contrattazione nazionale ai fini contributivi (“in peius”). Tale limite è irrinunciabile, poiché la materia previdenziale è regolata da norme imperative di legge statale, come sancito dall’art. 2115, comma 3, del codice civile. Anche un accordo aziendale, pur legittimamente sottoscritto, non può giustificare una base contributiva inferiore a quella prevista dalla legge. L’efficacia del contratto individuale o collettivo di livello inferiore è rilevante solo se migliora, e mai se peggiora, il trattamento minimo contributivo.
Conseguenze pratiche
La sentenza stabilisce che una voce retributiva, come l’indennità di turno, non perde rilevanza ai fini contributivi anche se il datore di lavoro decide unilateralmente di non corrisponderla più. Se tale voce era prevista nei contratti individuali, essa rimane inclusa nella base imponibile contributiva. Inoltre, la cessazione di un accordo integrativo aziendale non elimina l’obbligo di versamento dei contributi sulle retribuzioni concordate a livello individuale.
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Questa ordinanza rappresenta un rafforzamento della tutela del sistema previdenziale e dei diritti futuri dei lavoratori, contrastando strategie di riduzione dei costi del lavoro che potrebbero tradursi in una diminuzione occulta dei contributi, con ricadute negative sulle pensioni. Il principio espresso è semplice e diretto: il sistema previdenziale non può essere sacrificato in nome della flessibilità retributiva. Seguendo i principi ribaditi dalla Cassazione, il caso è stato rinviato alla Corte d’Appello competente per una nuova valutazione conforme a quanto stabilito.

