Negli ultimi anni, la giurisprudenza italiana ha compiuto un passo decisivo nella tutela dei lavoratori più vulnerabili: la minaccia di licenziamento, se utilizzata per costringere un dipendente ad accettare condizioni peggiorative rispetto a quanto previsto dal contratto collettivo o individuale, integra il reato di estorsione. Non si tratta di una semplice violazione del diritto del lavoro, né di una mera illegittimità civile, ma di una condotta penalmente rilevante, punibile ai sensi dell’art. 629 del c.p..
Il principio consolidato dalla Cassazione
La Corte di Cassazione, con una serie di pronunce ormai coerenti e progressive, ha ribadito con forza che la minaccia del licenziamento, in un contesto di squilibrio contrattuale e di fragilità del lavoratore, può assumere i contorni del reato di estorsione. La Suprema Corte, con la sentenza n. 29047 del 5 luglio 2023, ha stabilito che il comportamento dei soci di una società operante nel settore socio-sanitario, i quali avevano minacciato il licenziamento dei dipendenti per costringerli ad accettare uno stipendio inferiore a quanto previsto dal contratto e a registrare come ferie giorni di assenza non effettivamente goduti, integra il reato di estorsione ai sensi dell’art. 629 c.p. Di conseguenza, la Corte ha rinviato il caso ai giudici di merito per un ulteriore approfondimento, rimarcando la gravità di tali azioni.
Estorsione, non violenza privata: la differenza sta nel profitto ingiusto
Un passaggio fondamentale della giurisprudenza riguarda la distinzione tra estorsione e violenza privata. Mentre quest’ultima punisce l’uso di violenza o minaccia per costringere altri a fare, tollerare o omettere qualcosa, l’estorsione richiede in più l’intento di procurare a sé o ad altri un “ingiusto profitto”, unito al danno per la vittima. È proprio questo elemento — il vantaggio economico illecito — a fare la differenza. Come chiarito dalla Cassazione, la successiva regolarizzazione del rapporto di lavoro non cancella il reato, perché il profitto ingiusto è già stato conseguito nel momento in cui il datore ha evitato di pagare quanto dovuto o ha imposto prestazioni non retribuite.
Minacce “larvate”, consigli subdoli, insinuazioni: tutte forme di estorsione
Non è necessario che una minaccia sia esplicita per essere rilevante. La sentenza n. 29398 dell’8 agosto 2025 ha chiarito che la pressione psicologica esercitata su un lavoratore può manifestarsi in forme meno evidenti, definite “larvate”. Questa pressione può concretizzarsi in modalità esplicite o implicite, attraverso comunicazioni scritte o verbali, in dichiarazioni dirette o ambigue, oppure sotto forma di consigli o esortazioni. In un caso specifico analizzato, il datore di lavoro aveva rivolto al dipendente la frase: “Se non ti va bene, puoi anche andartene”. Tale affermazione, contestualizzata nell’ambito di una richiesta di riduzione salariale, è stata giudicata sufficiente a configurare il reato di estorsione. La Corte ha ritenuto che essa compromettesse la capacità del lavoratore di autodeterminarsi, inducendolo a uno stato di soggezione psicologica.
Il precedente fondamentale: la sentenza n. 3724/2021
Con la sentenza n. 3724 del 29 ottobre 2021, la Corte aveva sancito un principio fondamentale nel campo del diritto penale legato al lavoro. Si stabiliva che costituisce il reato di estorsione la condotta del datore di lavoro che, sfruttando una situazione di mercato favorevole, caratterizzata dalla prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringa i lavoratori, attraverso minacce implicite di licenziamento, ad accettare trattamenti retributivi peggiorativi e non proporzionati alle prestazioni svolte. Tale orientamento è stato ulteriormente ribadito e approfondito da successive pronunce, tra cui la sentenza n. 629 dell’11 gennaio 2023. In quest’ultimo caso, un datore di lavoro aveva minacciato una dipendente di non corrispondere il salario dovuto qualora questa non avesse ritrattato le sue dichiarazioni fatte agli ispettori INAIL e firmato un foglio in bianco. La Cassazione ha riconosciuto tale condotta come un atto di tentata estorsione, rilevando che l’intento era quello di ottenere un illecito vantaggio personale, ovvero sottrarsi a responsabilità in ambito ispettivo, attraverso l’utilizzo di una minaccia.
il valore di un precedente sociale e giuridico
Queste sentenze non rappresentano solo un’evoluzione giurisprudenziale, ma un messaggio chiaro al mondo del lavoro: non è più tollerabile l’abuso di potere da parte del datore di lavoro, soprattutto quando sfrutta lo stato di bisogno o di incertezza del dipendente per imporre condizioni illecite. Il reato di estorsione, quindi, diventa uno strumento di protezione penale del lavoratore, non più relegato alla sfera civile o amministrativa. Ai datori di lavoro: attenzione. Ai lavoratori: non tacete. E ai colleghi avvocati: ricordiamoci che il diritto penale può essere una leva potente per contrastare lo sfruttamento.

