Il demansionamento — ossia l’assegnazione a un dipendente di mansioni inferiori rispetto alla sua qualifica — non è solo una questione contrattuale: è un affronto alla dignità professionale, un colpo all’autostima e, talvolta, un campanello d’allarme su come un’azienda tratta chi ci lavora. Ma di fronte a un ordine del genere, si può rifiutare senza rischiare il licenziamento? La risposta, come spesso accade nel diritto del lavoro, non è semplice, ma dipende da una serie di condizioni e contesti ben definiti dalla legge e dalla giurisprudenza.
Il divieto di demansionamento: il punto di partenza
L’art. 2103 del c.c. rappresenta il cuore della tutela del lavoratore contro il declassamento arbitrario: vieta al datore di lavoro di adibire un dipendente a mansioni inferiori alla sua qualifica, salvo casi espressamente previsti dalla legge. Quando il datore agisce in violazione di tale principio, si configura un demansionamento illegittimo, ossia un vero e proprio inadempimento contrattuale. In questi casi, il lavoratore ha il diritto di rifiutare la nuova assegnazione. Tuttavia, attenzione: il rifiuto deve essere proporzionato alla gravità del demansionamento. La giurisprudenza, infatti, richiama i principi di correttezza e buona fede contrattuale (art. 1460 c.c.) e sottolinea che il rifiuto è legittimo solo se il declassamento è totale, palesemente umiliante e privo di contenuto professionale, tale da ledere la dignità personale e professionale del lavoratore. Un esempio chiaro? Un quadro direttivo con responsabilità manageriali improvvisamente assegnato a compiti di portineria: in casi estremi come questo, il rifiuto è pienamente giustificato. La Corte di Cassazione ha riconosciuto la legittimità del rifiuto anche in presenza di inadempimenti gravi e ripetuti, come un demansionamento accompagnato da ritardi sistematici nel pagamento dello stipendio (Cass. Civ., Sez. L, n. 21965 del 30-07-2025).
Non sempre è illecito: il demansionamento “legittimo”
Con il Jobs Act (D.Lgs. n. 81/2015), l’art. 2103 del Codice Civile ha introdotto una deroga importante: il demansionamento è considerato lecito quando deriva da una modifica degli assetti organizzativi dell’azienda. In questo caso, il datore di lavoro può assegnare al dipendente mansioni appartenenti al livello immediatamente inferiore, purché nella stessa categoria legale. Ad esempio, nel caso in cui un’azienda decida di esternalizzare il reparto contabilità, l’impiegato contabile può essere riassegnato a mansioni amministrative di segreteria, purché vengano rispettate alcune garanzie previste dalla legge. È infatti obbligatorio che il cambiamento di mansioni venga comunicato per iscritto, altrimenti l’ordine risulta nullo. Inoltre, il lavoratore ha diritto a mantenere sia lo stesso livello di inquadramento sia la medesima retribuzione, a meno che questa non comprenda indennità specificamente collegate alle mansioni precedenti. In questo contesto, il rifiuto non è ammesso: opporsi a un ordine legittimo costituisce insubordinazione, e può giustificare un licenziamento disciplinare o per giustificato motivo soggettivo. L’unica via di tutela è impugnare in tribunale il provvedimento, cercando di dimostrare che la riorganizzazione aziendale sia fittizia o pretestuosa.
Demansionamento come alternativa al licenziamento: scelta dolorosa ma possibile
Un terzo scenario si verifica quando il datore propone un demansionamento per evitare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo (g.m.o.). In questi casi, entra in gioco l’obbligo di repechage: il datore deve verificare se esistano altre posizioni in azienda, anche con mansioni diverse o inferiori, in cui ricollocare il lavoratore. La giurisprudenza ha chiarito che tale ricerca può legittimamente includere mansioni inferiori (Cass. Civ., Sez. L, n. 17036 del 20-06-2024). A differenza del demansionamento legittimo per riorganizzazione, qui è possibile anche una riduzione della retribuzione, adeguata al nuovo inquadramento (Cass. Civ., Sez. L, n. 19556 del 15-07-2025). In questa ipotesi, il lavoratore può rifiutare la proposta. Ma con una conseguenza importante: se l’offerta era seria, concreta e rappresentava l’unica alternativa al licenziamento, il rifiuto fa ritenere adempito l’obbligo di repechage, rendendo legittimo il successivo licenziamento (Tribunale di Roma, sez. LV, sentenza n. 8515/2022).
Cosa fare, in concreto?
Di fronte a un demansionamento, è importante agire con ponderazione e strategia per tutelare i propri diritti. È essenziale contestare per iscritto l’ordine ricevuto, mantenendo però la disponibilità a svolgere mansioni in linea con la propria qualifica, evitando così di rifiutare totalmente il lavoro, un comportamento che potrebbe essere percepito come insubordinazione. Contemporaneamente, è consigliabile consultare un esperto legale per valutare se il demansionamento sia giustificato o meno. Nel caso in cui venga avanzata un’alternativa al licenziamento, come un cambio di ruolo, è fondamentale riflettere con attenzione sulle possibili conseguenze del rifiuto. Il diritto del lavoro premia approcci consapevoli, proporzionati e ben documentati, più che reazioni impulsive. In un contesto in cui la dignità professionale è spesso compromessa, conoscere e difendere i propri diritti non rappresenta solo un vantaggio, ma una forma concreta di resistenza.

