Nel panorama del diritto del lavoro italiano, un recente e significativo orientamento giurisprudenziale ha riaffermato con forza un principio fondamentale: il lavoratore non è una risorsa da consumare, ma una persona i cui diritti alla salute, alla dignità e al riposo devono essere tutelati. Un chiaro esempio di questa evoluzione è rappresentato dalla pronuncia della Corte di Cassazione che ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale a un dipendente costretto a lavorare per 7 mesi consecutivi in regime di superlavoro, senza pause adeguate né turni di riposo.
Il caso concreto
Il lavoratore, dipendente di un’azienda privata, aveva denunciato di essere stato costretto a turni massacranti: 6 giorni su 7, con orari che superavano regolarmente le 10 ore giornaliere, spesso senza interruzioni adeguate né giorni di riposo settimanale. In un’espressione amara ma efficace, lo stesso lavoratore aveva descritto la sua condizione come quella di essere stato “spremuto come un’arancia”—un’immagine che ha colpito i giudici e che è diventata simbolo di uno sfruttamento lavorativo ormai insostenibile. Dopo aver subìto un grave disagio psicofisico, il dipendente ha agito in giudizio per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla violazione dei suoi diritti fondamentali.
La sentenza della Cassazione
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 11247 del 2023, ha riconosciuto la fondatezza della domanda, affermando con chiarezza che:
“Il superlavoro protratto nel tempo, concretizzatosi nella sistematica violazione dei limiti massimi di durata dell’orario di lavoro e nella mancata concessione del riposo settimanale, integra una condotta illecita ex art. 2043 c.c., essendo idonea a ledere la salute fisica e psichica del lavoratore, nonché la sua dignità umana e professionale.”
La Suprema Corte ha ribadito che non occorre dimostrare una patologia clinicamente accertata: è sufficiente che il lavoratore provi la sussistenza di un pregiudizio esistenziale e psicologico derivante da condizioni di lavoro oggettivamente vessatorie e spropositate.
Il fondamento normativo
Il riconoscimento del danno si basa su due pilastri normativi:
- Art. 2087 del Codice Civile: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.”
- Art. 36 della Costituzione italiana: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.”
Inoltre, il Decreto Legislativo 66/2003 (attuazione della direttiva europea 93/104/CE sull’orario di lavoro) stabilisce chiaramente:
- Limite massimo di 48 ore settimanali (mediato su 4 mesi);
- Obbligo di 11 ore consecutive di riposo giornaliero;
- Diritto a un minimo di 24 ore consecutive di riposo settimanale.
La violazione sistematica di questi limiti, come nel caso in esame, configura un illecito aquiliano, in quanto espone il lavoratore a rischi concreti per la sua salute e integrità psicofisica.
Conseguenze e spunti di riflessione
Questa sentenza non si limita a risarcire un singolo caso: segna una svolta culturale e giuridica. Riconosce che il superlavoro non è un “sacrificio necessario” né un “segno di dedizione”, ma una forma moderna di sfruttamento, in contrasto con i principi costituzionali e con il diritto europeo. Per le aziende, ciò significa che gestire il personale con turni estenuanti o pressioni continue non è solo eticamente inaccettabile, ma giuridicamente rischioso. Per i lavoratori, rappresenta una conferma del diritto a dire “basta”, a chiedere equilibrio e rispetto, e a ottenere giustizia quando questi vengono negati.

